Nella Curia, maestosa e severa,
si amministrava la Giustizia solo per i casi di massima gravità come tradimento
o Lesa Maestà; per gli altri processi erano riservate le Basiliche.
L’atmosfera era cupa e pesante.
L’aula era immersa in un silenzio surreale. Insolito nelle abituali riunioni
del Senato; fuori della Curia, invece, se non era ancora sommossa, era
sicuramente grande manifestazione di dissenso. Sulla piazzetta antistante, sui
gradini della adiacente Basilica Emilia e tra i Rostri, andava formandosi una
folla sempre più numerosa. Non era occupata con le scacchiere tracciate per
terra allo scopo di trattenerla impegnata tra un processo e l’altro, come si
faceva ogni giorno, ma occupata in accese contestazioni con i pretoriani di
guardia nel Foro.
Confuse tra la folla c’erano
anche Tracia e Claudia Pudente, la sorella di Seilace e la moglie del suo
difensore.
C’erano anche altri volti. Molti
volti che la gente conosceva bene e la cui presenza in quel luogo contribuiva
ad alterare gli animi.
C’erano i gladiatori Milos il
trace, Valentinus il reziario, Sabina la cacciatrice e molti altri ancora. Non
portavano armi, perchè era loro proibito, ma erano armati di un furore assai
evidente.
Il malumore della folla aumentò e
la sua eco raggiunse l’interno della Curia dove a Capitone, uno degli
accusatori, era appena stata concessa la parola.
“Patres Conscripti.”
esordì, con voce piena di acredine, facendo
seguire una lunga pausa in cui si
udivano solo nervosi respiri.
I Patres erano scelti fra
nobili e patrizi; i Conscripti, invece, fra appartenenti all’Ordine del
Ceto Equestre.
“Patres Conscripti.
- ripeté; ancora una pausa, più lunga
della precedente - Patres Conscripti!” disse per la terza volta
puntando l’indice della mano sinistra contro gli accusati.
Capitone esibiva con eccessivo
compiacimento l’anulus aureus senatoriale che con la tunica
guarnita della Latus Clavus, una lunga
striscia di porpora di derivazione etrusca e il calceus senatorius, costituivano la tenuta senatoriale
“Mi è già accaduto di trovarmi in
questa Assemblea per richiedere severità di giudizio contro qualcuno e mai mi
sono trovato in mano prove più schiaccianti come contro i due qui presenti,
accusati di cospirazione e tradimento. – ancora un pausa studiata e calcolata – Sbagliate se credete in una
qualche possibilità di estraneità ai fatti
che ho già ampiamente esposti nelle precedenti sedute e che per la terza
volta insisto nel formulare: sedizione ed incitamento alla rivolta da parte di
Seilace, gladiatore e principe dei Siluri, popolo sottomesso a Roma… questo
barbaro, da noi accolto con tutti gli onori e il rango! – un’ennesima pausa,
per schiarirsi la voce, poi - Accuso anche il tribuno Marco Valerio Flavio di
chiamata alle armi di ex legionari e di arruolamento di contadini nei ranghi
del Vexillum della Legione X, accampato alle porte di Roma, per
appoggiare la rivolta del generale Galba, ai danni dello Stato, nonché di Lesa
Maestà! Per detti delitti, invoco la massima pena.”
“Dove sono le prove? – si alzò,
potente e severa, la voce di Cleonte - Hai mosso accuse meritevoli di massima
pena, ma non hai mai esibito alcuna prova concreta a loro carico.”
Un cenno e una porta laterale si
aprì; sull’uscio comparve un giovane scortato da due pretoriani, che
riconobbero subito: era il gladiatore Sabino, nemico giurato di Seilace.
“Eccolo, Patres Conscripti,
il testimone dei fatti che pongo alla vostra attenzione. - continuò Capitone -
Parla, Sabino.”
Sabino parlò. Riferì di complotti
consumati all’interno del Ludus Gladiatorius su istigazione di
Seilace il mirmillone e fra i legionari presenti a Roma, su incitamento del
tribuno Flavio, allo scopo di appoggiare la rivolta di Galba contro Cesare.
Erano menzogne ed era chiaro a
tutti. Mentire era una prassi comune in un processo, uno stratagemma se non
legittimo, giustificato. Spettava all’accusato smontare accuse e menzogne.
Cleonte balzò dal seggio e
raggiunse il gruppetto.
“E così, tutti hanno rivelazioni
da fare! – replicò. Il greco conosceva bene l’arte di giostrare con le parole -
Tutti hanno nomi da pronunciare, accuse da lanciare, fatti da rivelare! – e
qui, una pausa carica di palese rimprovero - La metà dei cittadini di Roma
sembrano diventati accusatori dell’altra metà, ma… - e qui, una seconda pausa,
per permettere al braccio sinistro seminascosto dalla toga di compiere un
semicerchio puntato sull’intero auditorio
– ma si cerca di arrivare primo ad accusare, per non essere a propria
volta accusati. E di cosa? Oh, di tutto… anche di quante volte al giorno si
frequenta la latrina! – un primo brusio tra i presenti - Non si distinguono più
gli amici dai nemici, i parenti dagli estranei: hanno tutti paura… di fatti veri
e di fatti immaginari… - le parole, come voleva l’arte oratoria, erano lente e
dosate, il tono prolungato ed enfatico. Trascinante - A furia di inventare
complotti e tradimenti e di metterli in conto ad avversari o a scomodi nemici,
come il principe Seilace o il tribuno Marco Valerio Flavio... Il tribuno Flavio
- ripeté, intenzionalmente e ponendo
l’accento sul cognome del giovane amico
- di schietta famiglia militare e nipote del generale Vespasiano, di cui Roma
si pregia come di un Vexillum. - e
anche questa volta non sfuggì a nessuno la palese intenzione nella pronuncia di
quell’ultimo termine - Le prove bisogna circostanziarle!...”
Continuava a parlare, il giurista
Cleonte, con quella lucidità ed essenzialità di linguaggio, drammatica e cruda,
talvolta brutale, che risvegliava tutti gli echi di quell’aula cupa. Parlava da
consumato giocoliere della parola, capace di esprimere con chiarezza il dramma contenuto in quella
farsa. Alzava e smorzava i toni della voce, serrava o allentava la stretta
della dialettica.
“Il senatore Capitone ha chiesto
il supplizio... E’ questo che intendeva con le parole: massima pena. - riprese
dopo breve ma tesissima pausa - Non ha
il coraggio di pronunciare la parola supplizio!... Pena capitale… sembra avere
un peso più lieve. Nessuno ha il coraggio di pronunciare la parola supplizio….
Supplizio! E sapete perché? Perché questa accusa di Attentato allo Stato e Lesa
Maestà, o Padri Coscritti, arriva da un atleta battuto con le armi che cerca
vendetta con la calunnia ed è sostenuta da uno uomo spregiudicato in cerca di
censi per un cavalierato nuovo come una moneta appena uscita dalla zecca!.... -
un mormorio accolse quelle parole; Capitone e Sabino fremevano di collera, ma
il greco non aveva ancora terminato l’arringa – No! No, Patres Conscripti.
Non la si può chiudere con una sepulcralis
lapis, una questione che poggia
sulla menzogna e la calunnia. Questo servirebbe solo a nutrire il malumore
delle folle e sarebbe un’iniquità per un’Assemblea onesta e giusta come
questa!”
Ancora brusii nella vasta stanza;
i senatori parevano sempre più poco propensi a prendere la parola.
Fu Ottavio Pudente a farsi
avanti.
“Il patronus Cleonte – esordì - ha ragione quando afferma che tutti
accusano tutti. E’ una vera persecuzione degli uni contro gli altri. Ad
alimentare il diffuso malcostume è, forse, la prospettiva di una ricompensa? Si
vede troppa gente in giro con la veste buona e la cartella piena di papiri
sotto il braccio chiedere udienza ai magistrati... Non ricordate più, Padri
Coscritti, contro chi sono dirette le accuse qui presentate?... Contro il
nipote di un generale di provata fedeltà allo Stato e contro il figlio di re
Caractatus che a tutti, qui a Roma, dette lezione di dignità e onore!...
Decidete con coscienza, dunque, e per il vostro onore, poiché, la sentenza che
emetterete, farà di voi uomini onesti o disonesti!”
Un silenzio glaciale accolse le ultime parole di Pudente.
(continua)
brano tratto dal libro di Maria PACE - LA DECIMA LEGIONE - Panem et Circenss
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